mardi 4 décembre 2012

Cibo a KM zero: meno trasporti, meno inquinamento. Gli Italiani sognano la fattoria di Nonna Papera ma non rinunciano a banane e caffè

La crisi ha cambiato le nostre abitudini alimentari e sta anche stravolgendo il mercato, così come eravamo abituati a pensarlo fino a qualche tempo fa. Ma non solo: ci sono alcune teorie ben radicate in noi, che sono state create sulla base di presupposti fondamentalmente fuorvianti e di cui ancora oggi paghiamo le conseguenze.

In un convegno organizzato da Espansione, che si è svolto venerdì scorso a Milano, presso Palazzo Isimbardi, sede della Provincia, sono stati messi a nudo alcuni temi scottanti, tra cui il cibo a KM zero e gli OGM. Punto di partenza del convegno, la seconda edizione della ricerca svolta da Espansione e Interactive Market Research sul tema “Gli italiani e la nuova agricoltura” (su un campione rappresentativo di 1000 persone), da cui è emersa una sostanziale contraddizione nel nostro modo di immaginare il cibo (a questo link la ricerca completa www.espansioneonline.it/2012/11/scienza). Apparentemente siamo tutti convinti del fatto che il binomio scienza e agricoltura è necessario per avere cibo buono e sano, ma aspiriamo a una produzione di cibo autarchica sul modello della fattoria di Nonna Papera. Potenza della comunicazione e della pubblicità: la fattoria premoderna piace a due italiani su tre, pur essendo un modello assolutamente superato e non proponibile oggi, in cui ci sono 8 miliardi di persone da sfamare (10 miliardi nel 2050). Cosa succede, dunque, quando il nostro desiderio di tornare a un immaginario eden popolato di pastorelle e contadini si scontra con la crisi che stiamo vivendo?? Succede che i nostri consumi si contraggono e che a farne le spese sono i negozi sotto casa (quelli a KM zero per intenderci): in un anno preferenze dimezzate. Nel 2011, oltre il 3% degli intervistati li indicava come canale di acquisto preferito, nel 2012 questa percentuale si abbassa all’1,5%. Effetti della spending review casalinga, che affossa anche i punti vendita bio e naturali perché troppo cari. Insieme a loro perdono quote significative di mercato anche gli Iper mercati: la benzina costa troppo per andare a fare acquisti fuori città e questo spostamento di preferenze va a vantaggio dei discount. Il supermercato diventa il principale canale di acquisto per più della metà degli italiani.

In questo panorama come si inserisce quindi il cibo a KM zero, tanto amato da chi si occupa di trasporti, perché riduce gli spostamenti e conseguentemente l’impatto ambientale? Il modello di consumo a km 0 si basa sulla filiera corta: rapporto diretto tra chi produce e chi consuma, con trasporti molto brevi ed effetti positivi sull’anidride carbonica. Inoltre ci sono meno intermediari rispetto al metodo di distribuzione tradizionale e c’è un notevole effetto benefico anche sulla produzione di rifiuti. E’ quindi un modello di consumo virtuoso, che anche da un punto di vista economico-sociale consente lo sviluppo dell’impresa locale che preserva propria identità sul territorio. Il sogno di una agricoltura antica, con profonde radici nella tradizione resta intatto e 3 italiani su 4 affermano di comprare spesso prodotti a Km zero: un bel balzo in avanti rispetto al 2011. A questo amore espresso verso il km 0, non corrispondono però adeguati comportamenti perchè non c’è chiarezza sul concetto, dal momento che gli acquisti poi vanno su prodotti che non sono italiani: non rinunceremmo mai al caffè o a una bella spremuta d’arance in pieno luglio. Una contraddizione profonda che si ritrova anche nel nostro atteggiamento contrario all’OGM e che una volta ancora è provocato dalla mancanza di conoscenza vera sul tema. Si registra però una qualche timida apertura rispetto al 2011: la soluzione non è gradita, né ritenuta efficace, ma contemporaneamente ci siamo convinti che non sia opportuno bloccare la ricerca in questo senso come avviene in Europa (unico esempio di OGM free mentre il resto del mondo utilizza il sistema).

Come ha spiegato Antonio Pascale, agronomo e scrittore: “OGM significa prelevare il gene che ci interessa e portarlo in un’altra pianta per ottenere il risultato voluto. Fare agricoltura OGM significa anche fare la stessa cosa che è stata fatta negli ultimi 10.000 anni, ma con più precisione e senza rischi”. Perché quindi abbiamo tanta paura degli OGM? Per cattiva informazione, perché, ha continuato Pascale “la ricerca pubblica è ferma e la nostra agricoltura è indietro di 40 anni quindi le nostre piante non ce la fanno ad adattarsi ai cambiamenti avvenuti. Nel ‘900 ci siamo affrancati dalla fame grazie ai progressi dell’alimentazione e dobbiamo ringraziare il fatto che contadini e agronomi hanno prodotto piante migliori. Oggi grazie a questa tecnica forse riusciremo a creare piante che resisteranno alla siccità o ad attacchi batteriosi. Abbiamo bisogno di queste piante e dobbiamo mantenere un livello tecnologico alto”. In Italia scontiamo come sempre un deficit di informazione perché questa opposizione radicale, che sembra una guerra all’innovazione, nasce da un “sapere nostalgico”, ovvero dalla presunzione di pensare che quello che accadeva nel passato era fatto bene per antonomasia. Ed ecco quindi il sogno della fattoria di nonna papera e l’influenza degli attori che parlano con le galline. Ma senza innovazione non c’è miglioramento.

Source: RinnoValibi (http://goo.gl/Q4KGm)

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