mercredi 5 juin 2013
«Donne, imparate i segreti sporchi dell’economia »
Linguista e antropologa, Helena Norberg-Hodge, fondatrice e direttrice dell’International Society for Ecology and Culture , è considerata una degli ambientalisti più influenti al mondo, guru di una “new economy” basata sui prodotti a chilometro zero e la gioia, invece che sul Prodotto interno lordo. Al Festival CinemAmbiente di Torino , che si apre oggi, presenta il film Economia della felicità, già vincitore di numerosi premi, di cui è regista e interprete. Con un obbiettivo preciso: «Aumentare la consapevolezza sui molteplici impatti negativi della globalizzazione economica e promuovere strategie realistiche per “riportare a casa l’economia”». Vi proponiamo due spezzoni del film e l’intervista pubblicata sul magazine Sette in edicola oggi, qui in versione integrale.
Nel film lei critica aspramente il consumismo all’occidentale; ad esempio quando dice «anche se sei bionda, magra e con gli occhi blu, non sarai mai bella abbastanza»: pensa che le donne siano più vulnerabili al “lavaggio del cervello” operato dalla pubblicità e da certo marketing?
«In Ladakh – dove in passato non esistevano i media e le persone avevano il più alto senso di autostima che abbia mai visto – i giovani maschi sono stati i primi ad imitare il modello di virilità stile “Rambo” ma subito dopo le ragazze sono state influenzate dal modello bambola- Barbie. L’effetto è stato molto più interiorizzato dalle donne, che hanno cominciato a soffrire di depressione. Gli uomini, invece, sono diventati più aggressivi. Nella cultura tradizionale c’erano chiare differenze tra modelli maschili e femminili, ma le influenze moderne hanno esasperato e polarizzato i generi, al punto che oggi, perfino lassù, gli uomini sentono il bisogno di apparire onnipotenti e forti, le ragazze passive e timide».
In quali altri modi la globalizzazione influenza la vita delle donne?
«Per molti versi le donne sono state emarginate come cittadini di serie B, rispetto agli uomini che hanno preso l’iniziativa in una società sempre più esigente, mobile, veloce, tecnologica».
Che ruolo spera avranno le donne nella società del futuro?
«Le donne hanno un ruolo molto importante da svolgere, in quanto la nuova economia dovrà essere più umana e diretta al benessere ecologico. In queste aree le donne stanno già prendendo l’iniziativa, ma hanno ancora la tendenza a fuggire dai temi economici, anche perché questo campo è stato finora appannaggio quasi esclusivo degli uomini. Tuttavia, credo che le donne diventeranno leader nel ristabilire stili di vita che siano in armonia con i bisogni più profondi della famiglia e della comunità, più vicini alla natura».
Da oltre 35 anni si occupa di questi temi, ha visto qualche miglioramento?
«Il cambiamento di gran lunga più incoraggiante è stata la crescita del movimento glocal, in particolare dei prodotti alimentari a km zero. Oggi negli Stati Uniti, per la prima volta, il numero di piccole aziende è in aumento, non in diminuzione. Più in generale, ci sono stati cambiamenti molto positivi in termini di consapevolezza dei problemi ambientali. Ma per tradurre questo in un cambiamento della politica, dobbiamo diffondere le informazioni sui molteplici benefici sociali e ambientali della “produzione localizzata”. Ci sono anche state diverse iniziative interessanti per introdurre, al posto del Pil, degli indici alternativi di benessere. Come il Gross National Happiness in Bhutan».
Il mercato globalizzato è il peggior nemico dell’ambiente?
«L’economia globalizzata ha portato a un drammatico aumento delle emissioni di CO2 e dei packaging, creando montagne di rifiuti di plastica. Un’altra grave conseguenza strutturale è la monocultura, con produzioni su scala sempre più vasta: al commercio mondiale non interessa avere una moltitudine di piccoli agricoltori con una gamma di prodotti diversi, che sono anche naturalmente diversi per forma e dimensioni. Incoraggia, piuttosto, con l’aiuto anche di istituzioni educative e scientifico-tecnologiche, forme e dimensioni standard, e lo sviluppo di poche specie ibride. Lo stesso processo sta interessando la pesca e la silvicoltura. Così distrugge la biodiversità».
Il film fa una descrizione paradisiaca del Ladakh prima dell’impatto con il consumismo. Le società primitive vivevano meglio?
«Sono convinta che la vita tradizionale sia stata per molti versi migliore di quella moderna. La gente si sentiva più sicura, psicologicamente, socialmente e materialmente. In Ladakh avevano più tempo per la musica, il canto, per celebrare la vita, di quanto ne abbiamo mai avuto noi in Occidente. Certo, nelle culture tradizionali la vita può essere fisicamente difficile. Ma l’avvento del consumismo, che crea una società insicura, rifiuti, disoccupazione e un potere aziendale monopolistico, può solo peggiorare le cose».
La risposta è forse l’isolamento?
«No. Piuttosto, sta nel proteggere le nazioni dal potere monopolistico di banche e multinazionali. Questo può essere realizzato con la firma di nuovi trattati commerciali, in base ai quali le nazioni collaborano per proteggere i propri commerci, culture e ambienti da investimenti speculativi e da quella che io chiamo l’economia “drone”: controllata da lontano da persone che non rispondono delle conseguenze delle loro azioni».
Il movimento ambientalista non sembra in grado di raggiungere però un grande pubblico. Perché l’élite intellettuale, cui lei appartiene, che lotta per un’economia più sostenibile non riesce a influenzare l’intera società su questi temi?
«Il fatto che è la globalizzazione, o meglio i rischi legati alla deregolamentazione economico-commerciale e finanziaria, che sta dietro la maggior parte dei nostri problemi ambientali e sociali, non sono riconosciuti neppure dalle élite intellettuali. Finora, solo gruppi relativamente piccoli hanno cercato di aumentare la consapevolezza verso una soluzione di buon senso, come è appunto l’economia local. Per come la vedo io, è una questione di pubblica istruzione. La verità è che la società e la politica continuano a sovvenzionare e sostenere inefficienti monopoli giganteschi. Così, tra le altre cose, continuiamo a comprare cibo vecchio da lontano invece che cibi freschi locali. Se questo messaggio “uscisse” (ma questo significa più soldi dedicati a campagne di educazione pubblica) non sarebbe difficile convincere la gente della necessità di un cambiamento».
I popoli dei Paesi in via di sviluppo – penso alla Cina, ad esempio – sembrano però più interessati a partecipare al consumismo occidentale…
«Dobbiamo ricordare che la Cina non agisce da sola, quando si tratta di cambiamenti economici. E’ vero che il governo cinese ha spinto la produzione di massa per l’esportazione, incoraggiando al contempo il consumismo di massa a casa, ma tutto questo è avvenuto attraverso le banche estere e le mega-corporation transnazionali. Se l’Occidente non avesse collaborato all’espansionismo delle multinazionali, l’economia cinese avrebbe avuto un altro tipo di trasformazione».
Lei non crede nelle nuove politiche ambientali delle multinazionali? Neppure di quelle che si sono convertite al fotovoltaico o allo sviluppo di auto elettriche?
«No. Temo che abbiamo perso più di 20 anni, pensando che il “greening” di singole aziende potesse portare a un reale cambiamento. In questo periodo, le grandi società sono cresciute ancor più potenti di prima. Con pochissime eccezioni, le loro politiche ambientali sono state in gran parte superficiali, e non hanno affrontato le questioni economiche fondamentali che sono al cuore del problema».
Se la crescita economica, proposta finora da tutti i leader mondiali, Obama compreso, non è la giusta chiave per il futuro, quale ricetta propone lei?
«La chiave è definire uno spostamento dell’economia verso una moltitudine di piccole imprese, più reattive e responsabili. Le aziende devono avere dimensioni che rendano le loro attività più trasparenti, nel rispetto della diversità culturale ed ecologica dei singoli Paesi. La localizzazione può essere vista come una forma diversa di crescita: crescita economica nel numero delle imprese e dei posti di lavoro. Essa consente più libera impresa e creatività, non permette invece né monopoli di ricerca né lo sfruttamento di manodopera a basso costo o di risorse economiche nazionali. Anche il Papa ha recentemente parlato di questo. La localizzazione offre una reale e concreta alternativa sia al comunismo che al capitalismo».
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